DONNA E DONNE

Cara Ida,
questo post lo voglio scrivere come fosse una sorta di lettera dedicata a tutte le donne e a tutti gli uomini che approdano su questo tuo splendido sito.
Sono un’ex ragazzina degli anni ’70. Nel ’78 avevo 16 anni ed erano trascorsi 10 anni dal famigerato ‘68. A quei tempi le donne si erano finalmente spogliate di quegli obblighi che le vedevano asservite agli uomini. Frequentavo il terzo anno di scuola superiore e respiravo quell’aria frizzante fatta di possibilità che le generazioni precedenti non avevano potuto assaporare: ad esempio, potevamo entrare da sole in un bar per gustare un caffè, senza necessariamente incontrare sguardi (maschili o femminili) di disapprovazione. Le donne potevano persino affittare una casa anche da single! 10 anni prima, entrambe le cose, erano difficilissime da praticare per via di giudizi, pregiudizi e mentalità atavica che affibbiava il termine “donnaccia”, “libertina” o peggio, alle donne che praticavano comportamenti e atteggiamenti diversi da quelli tradizionali.
Diciamo che non si era abituati ad un concetto più ampio di donna. Ma il cambiamento era, ormai, in atto – fortunatamente per noi “nuove generazioni” – e oggi le donne non sono più imprigionate nei ruoli predefiniti di “figlia”, “moglie” e, infine, “madre”, senza mai poter essere “donna”.
Nel 1980 avevo 18 anni e mal sopportavo l’idea che le donne insultassero altre donne con epiteti tipo “tr…” o “put….”. Li avevo sentiti pronunciare dagli uomini e immaginavo che le donne dovessero trovarsi in armonia tra di loro, proprio per il loro passato fatto di lotte per poter essere considerate “esseri umani di sesso femminile” con eguale dignità di altri esseri umani di sesso maschile.
La guerra tra i due sessi non mi ha mai entusiasmata, tanto meno quella tra donne.
Oggi le donne non ricordano ciò che è stato, non hanno memoria di cosa hanno dovuto affrontare le loro nonne, della salita che hanno dovuto percorrere perché loro godessero di quella libertà che contraddistingue il periodo storico odierno (o forse è meglio dire, quello che abbiamo vissuto prima del covid?).
Possiamo iscriverci all’università, entrare nei locali da sole o in compagnia, essere a capo di aziende, decidere di non procreare, guidare camion o autobus o tram, e via dicendo; tutte cose che in un recente passato ci erano vietate da leggi o dalla morale o dall’etica o dal buon gusto. La prigione si è aperta e siamo finalmente uscite.
Il fatto di aver raggiunto quella che viene denominata “parità dei sessi”, però, non abbiamo saputo gestirla. Forse perché è fuorviante l’idea di parità. Che cosa intendiamo per “parità”? Essere uguali agli uomini? Non lo siamo. E lo vediamo, ad esempio, nelle gare sportive dove le femmine della specie umana (tranne poche e particolari eccezioni) ottengono tempi e risultati diversi da quelli ottenuti dai maschi della stessa specie. Parità significa avere pari diritti? Sì. Pari diritti su tutta la gamma delle attività umane. Questo, sì.
Insultare e giudicare le altre donne è un fatto che parte da una cultura dalla quale le donne hanno preso il peggio. La donna cosiddetta “emancipata” è diventata forte: affronta qualsiasi situazione avversa di petto, dimostrando, a se stessa e agli altri, il suo grande valore. Ciò è cosa buona. Meno buona è quando esclude il suo compagno, quando smette di condividere. Spesso vedo donne portare il peso delle bottiglie d’acqua minerale, ansimanti ma impettite, mentre il compagno cammina a un passo dietro di loro (come il principe Filippo dietro la Regina Elisabetta, con la differenza che la regina cammina a mani vuote). Quand’è che abbiamo dimenticato di dare all’uomo – e a noi stesse – il “giusto peso”?
Quando riteniamo che un’altra donna sbagli, ci scagliamo contro. Perché? Forse perché la crediamo debole e non vogliamo vedere quella debolezza in noi stesse? Proiettiamo, come dice Ida, la nostra debolezza su di loro. Insomma, abbiamo la coda di paglia.
Se ci si ritiene donne forti, capaci e coraggiose non per questo ci si deve scagliare contro altre donne che, a nostro parere, non mostrano quegli stessi attributi.
Ci sono meccanismi psicologici appresi nella cultura in cui viviamo – e credo che di questo si tratti quando osservo alcuni video, in giro per la rete o in televisione – dove vengono mostrati esempi di donne che insultano altre donne. Il meccanismo della ripetizione di atteggiamenti che osserviamo, divengono abituali (proprio per il fatto di ripetersi) e ad essi, quindi, attribuiamo una certa validità. Come a dire: se vedo una donna che insulta un’altra donna allora posso farlo anch’io: è naturale, lecito e condiviso.
Noi esseri umani siamo collaborativi. Di fronte al bisogno ci tiriamo su le maniche e lavoriamo sodo per superare i momenti difficili. Così è accaduto durante tutti i terremoti nella storia del nostro paese – come quelli del 2009 all’Aquila e del 2012 in Emilia. Lì non si è sentito nessun insulto tra le donne o tra uomini e donne. Anzi, tutti hanno collaborato per uscire fuori dal disastro. Tanto di cappello!
Forse la nostra società invece di esporci a programmi trash che propongono modelli-spazzatura potrebbe decidere di porre fine a questa guerra sorellicida dando vita a programmi storico-culturali che ci ricordino le nostre importanti radici. Sarebbe bello rivedere le suffragette dagli abiti lunghi e dai cappelli eleganti, manifestare per i diritti delle donne oltre 100 anni fa. Lungi da loro insultare altre donne! Lungi da loro criticare altre donne.
Morale: care donne, quando insultate altre donne, state insultando voi stesse e la vostra storia di donne, insomma, la vostra anima.
Un libro vi consiglio, giusto per aiutarvi ad essere delle donne veramente donne: Sibilla Aleramo – Una donna – Universale Economica Feltrinelli.
Vi saluto con un abbraccio virtuale e vi auguro buona lettura.
Lucia Attolico

Psicologa, psicoterapeuta, specializzata in problematiche familiari nel rapporto tra genitori e figli.